LA COMPRENSIONE DEL CONFLITTO
Si comincia fin da bambini, quando, in famiglia, si litiga per il telecomando; quando, tra fratelli, ci si impunta pur di aver ragione; quando, poi, crescendo, si incontrano i primi compagni per cui non riesce a nascere una spontanea simpatia.
Il confronto con l’altro pare quasi per sua natura intrinseca interiorizzare un conflitto, piccolo o grande che sia, su cui poggiare la costruzione del nostro vivere con noi stessi e, soprattutto, con chi ci circonda. Un sunto – questo – fondamentale per poter provare ad interrogarsi, ora che siamo adulti maggiormente consenzienti, su quelli che diventano, nella nostra vita, i conflitti, più o meno risolvibili del quotidiano e, nella dimensione dell’umanità, i disastri di guerre e prevaricazioni tra popoli.
Verrebbe difficile o quanto meno sproporzionato, ad un primo approccio, accostare le due dimensioni del conflitto: “la guerra” – potremmo dire – “non è una mia responsabilità diretta”.
La comprensione del ruolo di ogni singolo individuo, tuttavia, è la sola chiave da cui poter trarre una conclusione – forse banale, ma per nulla scontata – di quel che risulta essere il nostro approccio alla vita.
La storia dell’Uomo, e del mondo prima, è sempre stata fatta di grandi cicli, di andate e di ritorni, di alti e di bassi. Di cambiamenti, insomma. Pensiamo ai dinosauri, per esempio, e alla loro estinzione; o agli ominidi e alle loro evoluzioni in forme umane. Da lì i passaggi sono stati innumerevoli per un’umanità capace di cose enormi, dalle più meravigliose alle più aberranti. Abbiamo avuto l’onore di conoscere la magia di epoche di straordinaria bellezza e capacità creativa; abbiamo visto, da un lato, l’uomo capace di creare arte, cultura e sociale benessere. Come, dall’altro lato, stiamo avendo, anche in questi giorni, l’onere di constatare l’orrore di epoche d’odio, distruzione, violenza e diffidenza reciproca.
La sostanziale “transitorietà” dell’epoca in cui viviamo ci pone, di fatto, il grande interrogativo esistenziale da cui si può e, forse, si deve, desumere una capacità percettiva e analitica che ci conceda, quanto meno, di porre in relazione noi stessi con quel che ci pare essere molto più grande di noi.
“I più grandi conflitti – canta Garth Brooks – non sono tra due persone, ma tra una persona e se stessa.”
Trovare, dunque, nella comprensione del conflitto, quel che ci rende adulti rispetto alle piccole liti infantili, è la responsabilità da imputare ad ognuno di noi per poter individuare quella risorsa che, dal contrasto, può far scaturire le basi di un reciproco convivere tra persone, tra popoli e con sé stessi.
La pace, nel suo significato più ideologico ed intrinseco, è un qualcosa in cui si deve credere, un qualcosa che si invoca, quasi fosse una professione di fede tra la propria coscienza ed il mondo esterno. Nell’approcciarsi all’ “altro da sé”, tuttavia, ci si accorge che, di fatto, ci si trova a mettere in discussione e, quindi, a dover difendere o, in alternativa, a barattare concetti che, pur derivanti dall’aspirazione aulica alla pace, risultano essere ben più tangibili nel vissuto, quali, per esempio, la libertà, la dignità, il rispetto reciproco, il modo di vivere e – come anticipato – di convivere.
Concetti e “progetti” – questi – che si costituiscono nella civiltà educativa della nostra provenienza, della nostra famiglia, del nostro vivere sociale, ma che si arricchiscono, di epoca in epoca, del costante e paziente lavorio di costruttività derivante dalla responsabilità che ognuno di noi porta con sé.
Giorgio Moranda